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Il Garante precisa i limiti dello stop ai redditi online
Possibili furti di identità, con i dati dei contribuenti italiani lanciati sul web senza protezione, con milioni di posizioni reddituali a disposizione di tutto il mondo. Con informazioni copiate, modificate, elaborate, vendute e comprate. Ma non solo: si rischia di dover pagare – chissà se mettendo mano al tesoretto, sicuramente dalle tasche dei contribuenti – la sanzione che il Garante della privacy irrogherà all'Agenzia delle entrate perché è mancata una corretta informazione ai contribuenti sull'uso dei dati relativi ai redditi del 2005. Una somma che potrebbe raggiungere i 18mila euro. Lo ha detto il Garante della privacy, Francesco Pizzetti, nel corso di una videointervista rilasciata ieri al Sole 24 Ore.com. Per l'Authority, infatti, l'Agenzia «non ha informato». Il Garante, dunque, con un provvedimento ad hoc ha contestato alle Entrate il mancato avvertimento ai cittadini. Nella comparazione fra fenomeno e sanzione, sottolinea il Garante, c'è un abisso. «Siamo una tigre di carta, una tigre senza grandi denti». Secondo Pizzetti l'Agenzia aveva, con la dichiarazione dei redditi, informato i contribuenti che i loro dati sarebbero stati consultabili secondo le modalità stabilite dalla normativa del 1973 (il Dpr 600). Si tratta, però, di avvertenze inadeguate, perché il Fisco ha poi deciso di mettere i redditi online, utilizzando un sistema diverso da quello indicato dalla legge. L'amministrazione finanziaria dovrebbe, secondo il Garante, occuparsi di più di come gli uffici periferici delle imposte mettono a disposizioni dei cittadini i dati reddituali. Infatti, mentre la sede centrale delle Entrate decideva – in nome della trasparenza, ma andando oltre le intenzioni del legislatore – di divulgare i guadagni di tutti gli italiani sulla rete, quegli stessi dati erano inaccessibili per chi si presentava di persona presso gli uffici locali del Fisco o nei Comuni, come hanno dimostrato le inchieste del Sole 24 Ore di ieri e dell'altro ieri. E ciò è in contrasto con quanto dice la legge del '73. È il problema della pubblica amministrazione che spesso si fa scudo della privacy, anche quando non dovrebbe. Gli elenchi dei contribuenti che l'agenzia delle Entrate invia alle proprie sedi locali e ai Comuni – ha precisato Pizzetti – sono consultabili da chiunque. Ovviamente non per conoscere – come si è sentito rispondere il giornalista del Sole 24 Ore da tutti gli uffici imposte della capitale – solo i propri guadagni (si presume siano noti), ma per consultare i redditi di tutti gli abitanti di quel Comune. Questo dice la norma del '73. Quanto poi di quei redditi sia pubblicabile è affare diverso, che riguarda il codice di deontologia dei giornalisti. «Possono essere divulgati sui media – ha spiegato il Garante – solo i dati che rivestono un interesse pubblico. Ma è anche vero che a livello locale pure il farmacista o il dottore commercialista sono personaggi in qualche modo pubblici. Ne sono ben conscio, perché sono figlio di medico pediatra e ad Alessandria il reddito di mio padre finiva tutti gli anni sui giornali». Si tratta, però, di pubblicare i dati acquisiti dagli elenchi disponibili presso i Comuni o negli uffici imposte. Altro discorso sono le informazioni messe online dalle Entrate, che, nonostante il divieto dell'Autorità, continuano a circolare, commettendo un reato che il Codice della privacy punisce con l'arresto da un minimo di sei mesi a tre anni. Sulla vicenda dei redditi in rete ieri è intervenuto anche il presidente uscente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che ha definito «sbagliata e pericolosa» l'iniziative del Fisco. «Si rischia di mettere l'uno contro l'altro. Ben venga la lotta all'evasione – ha affermato Montezemolo – ma la gogna mediatica non va bene. Ci vuole trasparenza anche verso chi incassa i tributi: dove va a finire il 48% del Pil che manteniamo con le nostre tasse? Mi piacerebbe saperlo». |
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